(English version below)
Nel 2013, per gli amanti del rock, dell’occulto o anche solo della bella musica, Produces Reason si è indiscutibilmente distinto come uno dei dischi dell’anno. Un gran risultato, specialmente per una band che – pur annoverando fra le proprie file diversi veterani – era all’esordio.
Certo, una bella soddisfazione, ma anche un cruccio: quando il primo album finisce dritto fra i dischi dell’anno e viene accolto tanto benevolmente dalla critica, come si fa a pubblicarne un secondo che sia all’altezza?
Gli Sleep of Monsters hanno trovato la risposta: osando.
Poison Garden è un concept album che gioca su forti contrasti e dosaggi ben precisi. Se da un lato le sonorità – fatta eccezione per il brano d’apertura – sono molto meno heavy che in Produces Reason, dall’altro i testi sono più oscuri e criptici; le melodie sono più orecchiabili, eppure Ike Vil sembra essere tornato a scrivere per i Babylon Whores. C’è più luce, ma ne emerge un pessimismo più accentuato. Mentre in Produces Reason il tema della morte viene trattato in maniera canzonatoria e provocatoria (Abomination Street ne è un ottimo esempio), in Poison Garden la Nera Signora (Our Dark Mother) viene guardata dritta negli occhi, con l’accettazione di chi sa che non potrà rimandare per sempre il bacio fatale. Se Produces Reason terminava con il proprio brano più elevante, Magick Without Tears, Poison Garden termina invece con una discesa agli inferi senza possibilità di ritorno, intitolata Land of Nod.
Fra i brani migliori:
Poison King apre l’album, introducendo il tema di Mitridate Eupatore, il celeberrimo e acerrimo nemico di Roma, noto per essersi reso immune ai più diversi veleni assumendone ogni giorno in piccole dosi. Già da qui si intuisce che in quest’album, rispetto al precedente, si sfrutterà meglio il potenziale delle magnifiche coriste della band; i cori di questo brano suscitano infatti la genuina speranza che la bonus track del prossimo disco sia una cover di Carmina Burana.
Golden Bough è la ballata romantica del disco, nonché forse il pezzo più ricco a livello sonoro. La chitarra apre il brano creando un’atmosfera inquietante, che sembra parlare del risveglio di un mostro, solo per poi dare il via ad un riff sulle cui note potrebbero ballare abbracciati Fred Astaire e Ginger Roger; la voce cristallina di Tarja Leskinen e gli archi rendono il pezzo particolarmente toccante, riuscendo però a non scadere neppure lontanamente nel cliché della band metal sinfonica finlandese.
The Art of Passau è il primo di due omaggi alla cultura tedesca (troveremo il secondo in Babes in the Abyss, in cui Vil recita in tedesco il girotondo, dimostrando una volta per tutte la propria capacità di far sembrare colta qualunque cosa). “Art of Passau”, in tedesco passauer kunst, è il modo in cui viene ricordata una credenza dei soldati tedeschi nel diciassettesimo secolo, secondo cui alcuni incantesimi – scritti su dei fogli – potevano rendere invulnerabili. L’intro ricorda gli Epica di The Divine Conspiracy; il pezzo prende poi una piega decisamente più pop, seppur sapientemente reso più cattivo dal mantra “Nama nama sebesio” – risalente al culto mitraico e tuttora incompreso dagli studiosi – che rende il brano assolutamente irresistibile.
The Land of Nod è la canzone più tagliente e penetrante del disco. Se ne considerassimo solo le parti strumentali e i cori, potrebbe essere parte della colonna sonora di Baldur’s Gate, o persino de Il Gladiatore. Ma non ci sono solo la musica e i cori; c’è la storia di un uomo e il suo sentirsi destinato a seguire le orme del proprio padre, fin giù nella tomba. C’è il processo al padre, il processo a se stesso, la condanna per entrambi, ed in qualche modo l’autoassoluzione, perché in fondo persino Caino e Giuda seguivano il piano di Dio; un’autoassoluzione che forse non fa altro che trascinare l’imputato ancora più a fondo.
Insomma, ne Il Nome della Rosa, Umberto Eco scriveva di libri che parlano di altri libri. Poison Garden è un’opera d’arte che parla di altre opere d’arte, una storia fatta di molte altre storie. L’unico vero difetto sono le trombe sul finale di Devil and All His Works, in cui per una volta l’unione di elementi diversi non funziona come dovrebbe, creando un effetto decisamente troppo “Rocky Balboa”. Nonostante questo piccolo neo, si tratta di un album peculiare ed elegante, sia sul piano del suono che su quello del contenuto, che sfugge alle definizioni e proprio per questo merita di essere ascoltato.
English
In 2013, for those who love rock, occultism or even just good music, Produces Reason stood out as one of the best albums of the year. A great score, especially for a band who – despite having more than a veteran in its ranks – was at its debut.
Of course, there was something to be proud of, but also something to be concerned about: when your first album goes straight among the best releases of the year and critics love it, how will you then manage to do something that will live up?
Sleep of Monsters found the answer: daring.
Poison Garden is a concept album that plays with strong contrasts and precise doses.
If on one side the sound – with the exception of the opening track – is much less heavy than in Produces Reason, on the other hand the lyrics are darker and more cryptic; the melodies are more radio-friendly, but Ike Vil seems to have gone back writing for Babylon Whores. There’s more light, but what comes out is a stronger pessimism. While in Produces Reason the topic of death was faced in a sardonic and provoking way (Abomination Street is a good example), in Poison Garden one looks straight at the eyes of the Lady in Black (Our Dark Mother), accepting that it won’t always be possible to postpone the fatal kiss. While Produces Reason found its ending in its most elevating song, Magick Without Tears, Poison Garden ends in a descent to the underworld with no turning back, titled Land of Nod.
Among the best tracks:
Poison King opens the album, introducing Mithradates Eupator’s theme; Rome’s famous and arch enemy, known for having made himself immune to the most different kinds of poison, taking small doses of them every day. It’s already clear that in this album, compared to the previous one, the band will better develope the potential of its three amazing backing vocalists; in fact, this tracks’ backing vocals awake in the listener the genuine hope that the bonus track, in the next album, could be a cover of Carmina Burana.
Golden Bough is the romantic ballad of the album, and maybe also the most rich song in terms of sound. The guitar starts creating a sinister atmosphere, who might talk about a monster awaking, just to slip then into a riff, on whose notes Fred Astaire and Ginger Roger might dance holding each other; Tarja Leskinen’s crystal-clear voice and the strings make the track particularly touching, managing anyway to avoid the Finnish symphonic metal band cliché.
The Art of Passau is the first of two tributes to German culture (we’ll find the second one in Babes in the Abyss, where Vil declaims the German version of Ring Around the Rosie, proving once and for all his ability to make anything and everything sound sophisticated). “Art of Passau”, passauer kunst in German, is how we remember a belief that belonged to German soldiers during the 17th century, according to which some spells – written on papers – had the power to make people invulnerable. The intro reminds of Epica during The Divine Conspiracy era; then the track takes a much more poppish turn, but still it gets an evil vibe, given by the mantra “Nama nama sebesio” – which comes from the Mithraic cult and still, nowadays, no one has been able to translate – that makes the song absolutely irresistible.
The Land of Nod is the most sharp and penetrating song of this release. If we’d consider the instrumental parts and the backing vocals only, it could be part of Baldur’s Gate or The Gladiator’s soundtrack. But the instrumental parts and the backing vocals aren’t the only things there; there’s the story of a man, and his feeling himself doomed to follow his father’s path down to the grave. There’s his father’s trial, his own trial, a conviction for both, and somehow a self-absolution, because at the end of the day even Cain and Judas were following God’s plan; a self-absolution that maybe drags the defendant in an even deeper abyss.
Well, in The Name of the Rose, Umberto Eco wrote of books talking about other books. Poison Garden is a piece of art talking about other pieces of art, a story composed of many other stories. The only flaw are the trumpets in the ending of Devil and All His Works, where for once the fusion of different elements doesn’t work as it should, creating a sort of “Rocky Balboa effect”. Anyway, despite this little imperfection, this is a peculiar and classy album, when it comes to both music and lyrics; it escapes labels, and that’s the reason why it’s worth listening to it.